“E dove poggerà, il seme di queste canzoni? Spesso posano su un terreno arido, senza mettere radici. A volte, però, accade in una mente che è pronta. Che è fertile. Cosa succede, a quel punto? Se riesce a seminare un’idea nella testa, allora ha già cambiato il mondo” (David Mitchell, Utopia Avenue, 2021)


L’incertezza e lo stupore delle prime volte


Ogni inizio è una promessa. E in ogni promessa germoglia lo stupore e il fascino irresistibile del non dato, dell’incerto.

La prima volta che vidi la mia mbk ancora non si chiamava Freccia Gialloverde. Avevo 14 anni e lei faceva bella mostra di sé in vetrina. Tempo zero. Nuova, scintillante. Costava 500mila lire, decisamente troppe per le mie tasche da adolescente. Così mi comprai un salvadanaio e iniziai a mettere da parte. Andò avanti un inverno intero e il giorno del mio 15esimo compleanno, che coincideva con l’ultimo giorno di scuola, tornai al negozio pieno di speranza. Avevo le tasche piene piene, e me la portai a casa.

La prima volta che vidi il ponte di legno restai deluso. Un pezzo di legno scorticato, né più né meno. Una semplice passerella per unire le due sponde del Marecchia, tutto lì. Né moderno e neppure antico. Semplicemente vecchio. E modesto. Quel giorno pensai che con un vicino di casa prestigioso come il millenario Ponte Tiberio quel vecchio rottame avesse davvero poche chance di farsi ricordare, e che con tutta probabilità io stesso non ci sarei più tornato.

La prima volta che sentii parlare della Finlandia era una notte d’inizio primavera, a metà degli anni ’90. Sulla via dei collegi, Crissi sbucò dalle tenebre e con la sua lenta cadenza bellunese lamentò il fatto che se ne andavano tutti in Spagna, e che lassù dove andava lei non voleva metterci piede nessuno. “E dove sarebbe, esattamente?” Un lampo squassò i suoi occhioni blu, e andò a depositarsi dritto sul fondo del mio stomaco. “Turku”, rispose. In quel momento pensai che solo un pazzo come lei avrebbe potuto imbarcarsi in un’avventura del genere.

La prima volta che incontrai Andrea Denver rischiai seriamente di finire in galera. Lui stava piazzato come un toro al Ferro di Cavallo, deciso a portare la cultura e la legalità nel quartiere più difficile di Pescara. Avevo risposto al suo invito soltanto perché trovavo romantico l’approccio di certi visionari. Improbabili e fuori dal tempo. Mi invitò a seguirlo per dare un’occhiata alla ‘casetta della droga’, e all’uscita trovammo i Carabinieri. Ne nacque un alterco, con Denver che finì perfino per insultarli. E mentre già mi vedevo caricato in gazzella e portato al Comando, contro ogni aspettativa il pazzo furioso – sempre in nome della legalità – riuscì clamorosamente a venirne fuori.

La prima volta che vidi mio fratello, mio padre – forse per consolarmi – mi regalò una motociclettina blu. L’avevo puntata da tempo, al negozietto dietro l’edicola, e ogni volta che passavamo là davanti svoltavo come niente fosse dalle suppliche alle minacce. Temendo il peggio, quel giorno finalmente mio padre me la comprò, giusto prima di andare all’ospedale. Avevo passato da poco i 3 anni, e mentre mi sporgevo sulla culla, stringendo saldamente la motociclettina blu, mi chiesi chi diavolo fosse quell’esserino che si dimenava là dentro come un ossesso.

La prima volta che vidi Urbino decisi in un attimo che quella non era affatto una gita esplorativa, e che a vedere com’era l’Università di Padova non ci sarei più andato. Tempo zero. In un’altra vita, magari.

La prima volta che incontrai Angela stavamo in mezzo alla strada, io ero in cerca di una radiolina per ascoltare le partite e lei continuava a inveire contro un prof che mesi prima l’aveva bistrattata durante un esame. La trovai buffa e irritante, e dopo 5 minuti ne avevo già dimenticato il nome.

La prima volta che vidi Steve ero appena sbarcato a Urbino, per la mia nuova vita. Scesi dalla macchina di mio padre e la prima persona che mi trovai davanti fu lui. Notai subito la strana somiglianza fisica che ci accomunava. Avevo solo 19 anni e una paura fottuta di restare da solo. Se la notte precedente avessi fatto il sogno perfetto, e se in questo sogno ci fosse stato l’amico perfetto, sono convinto che non sarebbe stato neanche lontanamente all’altezza di quello che mi riservava il futuro.

La prima volta che vidi Salas avevo da poco iniziato a seguire le lezioni, e lui presidiava come uno showman la piazza del venerdì sera. Stava raccontando di alcune ragazze straniere che aveva appena conosciuto. Tra gli studenti, era l’unico a indossare la giacca. Poi passò con nonchalance, e senza un apparente nesso logico, a elogiare le cravatte Regimental. Lui, a quanto pare, ne possedeva due, e le indossava solo quando ne valeva la pena. “Madonna che arroganza”, pensai. La fuorviante congettura d’una matricola in cerca d’autore, suppongo, che certe promesse non le poteva ancora vedere.

La prima volta che vidi il Cé cantare dal vivo c’erano ancora le lire, le Torri gemelle erano al loro posto e Valentino le vinceva praticamente tutte. Era un’estate caldissima, l’Italia aveva appena buttato via un campionato europeo regalandolo alla Francia e il Cé – ai tempi poco più che uno sbarbo – scese trionfalmente in Vespa da Bologna alla Romagna. Io la Vespa non ce l’avevo, ma in compenso trascorrevo parecchie ore in macchina con gli amici. E mentre la vecchia Volkswagen macinava chilometri e si arrostiva nei parcheggi assolati della Riviera, in quei giorni decisi cosa ne sarebbe stato di me una volta archiviata la seconda vita. Proprio la notte del concerto inaugurai la terza, e fu giusto il Cé, dal palco, a indicarmi la via. Tempo zero. ‘Sarà qui che poggerai’ tuonò dall’alto il profeta, seminando un’idea nella mia testa. Mischiato tra la folla, alzai il braccio e risposi di sì, perché avevo capito, e perché tutto era ancora possibile.

Quando si parla per anni di una persona mai incontrata dal vivo, di solito si tratta di un personaggio famoso. Magari un attore, o un cantante. Bello, bravo o geniale. Insomma, famoso per qualcosa. A lui ci pensavo da anni, ma non era affatto famoso. Anzi. Praticamente non l’aveva mai visto nessuno. E quando decise infine di materializzarsi era tutt’altro che bello, con quell’orribile bernoccolo in testa e tutte quelle rughe sul corpo. La prima volta che lo vidi in carne e ossa c’era una donna che lo strattonava bruscamente, ripulendo con uno strofinaccio tutte quelle schifezze che gli imbrattavano la pelle. Io lo fissavo, e lui ogni tanto ricambiava con uno sguardo vitreo, senza vedermi. “Quindi saresti tu” pensai, guardando Samu per la prima volta.

Dopo la sua misteriosa sparizione, passarono 21 anni prima della nostra seconda ‘prima volta’. Io non avevo più 15 anni, e anzi curiosamente proprio in quei giorni lì mi apprestavo a superare la temuta soglia degli ‘anta’. Mio figlio era felice come una Pasqua perché l’ultimo giorno di scuola era ormai vicinissimo. Come corre il tempo, pensai rientrando a piedi dopo averlo accompagnato in classe. E uno dopo l’altro se li mangia tutti, gli anni. Riflettevo proprio su questo quando improvvisamente la Freccia Gialloverde si materializzò dietro un cancello. Mi avvicinai e la guardai bene, come la prima volta. Lo scintillio dei colori non c’era più, divorato anch’esso dal tempo. Ma era lei. In qualche modo, era tornata da me, e io non potevo permettere che ci separassero una seconda volta. Così corsi a casa e mi procurai tutto quello che mi serviva. La notte seguente balzai dietro quel cancello con l’energia di un ragazzino, pieno di speranza. Niente soldi, quella volta lì, ma anche alla nostra seconda ‘prima volta’ mi ci presentai con le tasche piene piene. Nel buio, tirai fuori il necessario, e me la riportai a casa.

C’è un vecchio ponte dove ho sempre una gran fretta di tornare. Negli anni non ho mai smesso, e ogni scusa è buona per farsi un bel giro. Se non ci sono le ragioni, me le invento. E chissenefrega se sto in Finlandia, in Veneto o a Milano. Ho imparato a manipolare il tempo e lo spazio, perché ogni volta è così che parte la mia avventura. La strada, in qualche modo, la trovo sempre. Perché l’incertezza e lo stupore degli inizi sta tutto qui: è un viaggio che comincia, e non puoi mai sapere dove ti porta.