A midnight in Venice

 

 

 

A midnight in Venice

      Paolo Di Toro Mammarella

 

 


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“Siamo una banda, noi. Ogni pomeriggio andiamo alle capanne a discutere i piani per le missioni segrete”. “Anche noi alla tua età facevamo parte di una banda”, risponde Galerio.
“E dopo?” “Anche dopo”, dice. “Però non dirlo a nessuno”. “Adesso giriamo l’Italia a piedi per contare quante vere bande rimangono. E’ questa la nostra missione”.
   “E quante ne rimangono?”, chiede il ragazzino. “Eh... non so se possiamo dirlo”.
“Con me potete parlare”, ribatte il piccolo. “Nessuno lo saprà”.

(Enrico Brizzi, Nessuno lo saprà, 2005)

 

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Le forze invisibili che governano il mondo sono le stesse che ci straziano il cuore.

Il vecchio film a un certo punto la piazzava giù proprio così. Qualche anno fa. Le parole riaffiorano mentre indago la superficie del lago sovrastato dalle montagne, alle porte della città-in-piano-circondata-dai-monti. “Barby se n’è andata stanotte”. Il messaggino arriva alle 15 spaccate, puntuale come lo stipendio del 27. So che non dovrei farlo, ma fatico a resistere e dopo neanche cinque minuti metto su New England, la mia canzone del momento. Quella che una volta avevamo ascoltato insieme. “Eh basta con questo Vasco Rossi! Senti un po’ qua...”


Non voglio cambiare il mondo. Non sto cercando il New England. Voglio solo una nuova amica.


Giusto il tempo di incamminarmi sulle rive del lago di ottobre che già mi si imperlano gli occhi.
Perché non torturarsi un po’? I loved the words you wrote to me but that was just  bloody yesterday… Al secondo giro del pezzo sento che sto per esplodere. Non c’è nessuno nei paraggi. Siamo in autunno, è un infrasettimanale, e forse posso spingermi fino al terzo. Ma il vecchio BJA non fa in tempo ad attaccare che il dolore mi piega letteralmente in due, tanto che devo perfino fermarmi. I can't survive on what you send, every time you need a friendAvevo giocato fin troppo con Barby. Barby la Milanese, come la chiamavano tutti. La bella chiacchierona che fingeva di ignorare il futuro, e che qualche volta mi pigliava perfino sul serio.


Avevo promesso di non farlo più, dopo Barby. Ma nove mesi dopo era comparsa lei. Agli albori dell’estate, Daniela la Cieca contava quasi il doppio degli anni di Barby. Passava più tempo a fumare in giardino che a curarsi, e di lei si diceva di tutto. Anche lei fingeva di ignorare il futuro. Colta, intelligente e giramondo. Non vedeva praticamente un cazzo, ma sfoggiava una memoria di ferro. E poi sapeva praticamente tutto di Venezia. Ad attirarmi fu proprio questo. Conosceva la Serenissima meglio delle sue stesse tasche. Una mattina di fine giugno tornai sorridente e felice nella città-in-piano-circondata-dai-monti e le raccontai del mio weekend in laguna. Di quell’alberghetto giusto alle spalle della Fenice. Di come mi ero sentito galleggiare, sfilando nel chiaroscuro del crepuscolo. La piazzetta del teatro. Le signore in tiro sedute ai caffè. Gli uomini eleganti in fila all’ingresso. Io non ero neanche entrato, dedicandomi al pellegrinaggio notturno. Più che altro, confessai, perché non avevo nemmeno la mise adatta. Con tuta e sneakers avrei avuto decisamente poche chance. Ma lo avrei fatto presto, giurai davanti a Daniela la Cieca. In giardino, assediata dal nugolo grigio di sigaretta che divora a morsi il cielo azzurrino d’estate, la Cieca ride perfino di me. E mi dice che non è alla Fenice. E’ al Goldoni che devo andare. Perché è quello – sbuffa – il teatro più antico della città.


Vestita per uccidere, direbbero a Hollywood. Dal garbuglio delle calli fino a San Marco, stasera la Serenissima pare proprio così. O almeno, le intenzioni sono quelle. Un labirinto dove - per qualche oscura ragione - si finisce per non perdersi mai. Nel buio crescente del vespro di dicembre, la bellezza è strepitosa. Alle cinque è già scuro, e in attesa dello spettacolo scendo alla Riva degli Schiavoni. Seduti alle banchine ci sono Hansel e Gretel. “Wow che fighetto abbiamo stasera!” Viene a sedersi vicino a me, con le belle guancette pallide rese rosee dal freddo decembrino. Dall’altra parte del Grand Canal la Giudecca si gode in pace il buio e il silenzio. Hansel sta seduto poco più in là, a fumare le sue Marlboro rosse. E ride di me, Gret, quando racconto della mia piccola avventura serale. “Falsario e imbucato”,  sogghigna l’altro.


L’idea era partita da Barby, l’anno prima. Barbara la Milanese, come la chiamavano i colleghi, che prima di sposarsi e raggiungere il marito nella città-in-piano-circondata-dai-monti, se ne andava in giro per Milano millantando ogni cosa. Una volta era modella. Altre un’attrice. Altre ancora, quando il suo senso dell’umorismo era particolarmente in vena, un addetto stampa. Barby, che di mestiere faceva la parrucchiera. Col suo sorriso furbetto mi fa “Perché non ci provi anche tu?” Lei si era concessa di tutto: teatri, mostre, feste e sfilate. In prima fila e mai pagante, anzi. Ossequiata e riverita. Da falso completo. Certo, la parte da modello non è che fosse proprio l’ideale per il sottoscritto. Più nelle corde di Hans, caso mai. Ma addetto stampa era un’idea. Così avevo scritto al Goldoni. Quanto bastava perché non fosse solo New England a ricordarmi di Barby. Nome e cognome erano quelli. Ma di mestiere facevo l’addetto stampa. Addetto alle relazioni pubbliche dell’esimio musicista, per essere più precisi. Per il Maestro in questione, però, avevo escluso da subito la provenienza italica: troppo facile controllare e svelare il bluff, di questi tempi. Ma anche millantando un decrepito gentleman in versione inglese, francese o americana il rischio di farsi beccare era troppo alto. Di tedeschi o cinesi non sapevo un accidente. Piuttosto, che l’illustrissimo in questione fosse finlandese suggeriva un setting molto più rassicurante. Credibile quanto basta per aggirare quesiti e sospetti: meno domande, più mistero. E poi di Finlandia ne sapevo a sufficienza per contenere i dubbi di chiunque. “E’ facile!”, rideva sempre Barby. Una bella mail e due stronzate. E il gioco era fatto, con lo spettro dell’inesistente Maestro finlandese pronto a materializzarsi in laguna nelle veci del suo italianissimo addetto alle relazioni con il pubblico.


“Da Helsinki con furore!” ride Hans, mentre schiaccia la Marlboro sulla banchina. All’inizio non è che impazzisse per me, a dire il vero. Ma da quando l’avevo omaggiato con una generosa confezione di cannabis liquida, ereditata da Barby e girata in dono a lui, Hans stravedeva per il sottoscritto. La Milanese avrebbe approvato, sicuro come il piombo nei western, e poi dov’era ora non avrebbe saputo che farsene. “E cos’è che vai a vedere?” “I gemelli veneziani”, rispondo. Scoppiano a ridere. Pare quasi una barzelletta, in effetti. E poi lo sanno che ho un debole per i gemelli. “E perché non ci porti con te?” ridacchia Gret. Ma non ha uno straccio di Green Pass, la povera. E di mascherine FP2 neanche a parlarne. L’aria fresca della sera è addolcita dal lampione che getta una luce obliqua sulle sedute di pietra. Li saluto allontanandomi dalla banchina e in un quarto d’ora sono a teatro.      


Il giochetto della email aveva funzionato alla grande. Ma non tanto per i 50 sacchi rimasti in cassaforte. Era un po’ come fare un omaggio a Barby. E vivere una piccola avventura col fiato sospeso, come quando lei, la parrucchiera, si era finta modella o attrice nei party fighetti di Milano. E poi c’era stato pure un prequel, due mesi prima. Una sorta di prove generali, quando mi ero presentato alla mostra radical chic – con tanto di aperitivo en terrasse - sventagliando il mio tesserino da international student. In barba all’anagrafe, e con tanto di logo dell’Isic – gentile concessione del Liden & Denz di Mosca - ben impresso sulla plastica. Per non parlare del nome riprodotto in cirillico – un autentico colpo di classe, quello - vergato appena più in basso. Tanto che da quattro anni continuo a tenerlo nel portafogli. Che non si sa mai nella vita. Roba da stendere il più sospettoso dei radicals. Quella volta era bastato coprire col ditino il ‘17’ dell’anno di rilascio, et voilà le travail. “Falsario e imbucato”, aveva riso di me Hans. Ma stavolta il gioco è più serio. Il Goldoni, teatro più antico della città. Le luci e i lustrini del foyer. Le signore vestite per uccidere, e tutti quei maschi in giacca. Sono in fila, ho un po’ il fiato corto. Quando è il mio turno dichiaro l’accredito e in un nanosecondo alla cassa irrompe un tizio barbuto. Serio, ma deferente. Come si conviene in questi casi. Da Helsinki con furore. Il giochino è fatto, sono dentro. Primo ordine e palchetto centrale, con tanti saluti alla cassiera. Barby sarebbe orgogliosa di me, penso mentre calano le luci e si alza il sipario.


Ho una specie di fissazione per i gemelli. Quelli in scena al Goldoni però sono due uomini corpulenti, strillano come ossessi e hanno ben poco da spartire con la grazia leggera di Hansel e Gret. A metà del secondo tempo sento qualcuno che mi sfiora con decisione una spalla. Mi giro e nel buio della saletta trovo il tizio barbuto e deferente dell’ingresso. Raggelo e quasi sobbalzo, pensando a come ci si deve sentire a farsi buttare fuori con disonore dal Goldoni, il teatro più antico della città. Ma lui mi sta semplicemente allungando un libretto e dei depliant, accennando perfino un mezzo inchino. Io sorrido e ringrazio. “Il Maestro ne sarà entusiasta”, gli dico. Poi cala il sipario e mi affretto verso la banchina. Sono le dieci passate, aspetto Hans e Gret. Non vedo l’ora che passi il tempo e arrivi Carnevale. Mi chiedo come deve essere la città delle maschere con la gente mascherata. E chissà come sarà carina Gret, con una mise da damigella veneziana cucita addosso.


La mattina successiva il treno mi riporta nella città-in-piano-circondata-dalle-montagne. Gret ha insistito tanto perché la portassi quassù, una volta o l’altra. Ma lo sa benissimo che non posso. Vuole vedere dove abito, dove lavoro, chi frequento. Cosa faccio quando non sto assieme a loro. E ovviamente vuole portarsi dietro pure Hans. Finirei per parlargli anche di Barby. Già lo so. Quindi è meglio lasciarli dove sono. Mentre il regionale buca l’inverno e tira dritto verso le montagne penso che la Milanese oggi sarebbe proprio fiera di me. E la Cieca pure, se solo potessi mostrare loro il libretto destinato al fantomatico maestro finlandese. “Da Helsinki con furore” rido mentre il regionale si infila nella città-in-piano e raggiunge sbuffando la stazione. E’ domenica, e il cielo è di un azzurro insolente.


Odio quando chi mi sta davanti giochicchia in continuazione col cellulare. Li odio, anche se faccio finta di no. E quindi io cerco di non farlo mai. A maggior ragione quando sono a lavoro. Ma in questo gelido lunedì di dicembre Gret mi tempesta di messaggi. Sembra proprio a terra. Sbattuta. Fuori di sé. La collega mascherata mi sventola orgogliosa il Super-Green-Pass sotto gli occhi. “Eeeehhhh queste mogli”, mi fa. “Eeeehhh”, rispondo. Rifletto sul fatto che la conosco da più di un anno e mezzo, ma senza maschera l’avrò vista sì e no un paio di volte. Non che mi sia perso chissà che, a dire il vero. Visto che sotto i begli occhi neri, tolta la bardatura facciale, la tipa non nasconde un granché, anzi. Gret in maschera invece non l’ho vista mai, a pensarci bene. Passo in rapida carrellata le serate alla banchina. Campo Santo Stefano. I giardini della Biennale e il sogno di andare al Lido insieme, qualche volta. Per sbarcare in taxi boat come le star.  O la serata stramba in quel bar nel vicoletto dietro Calle degli Spiriti.


“La locanda segreta degli ubriaconi”, avevano scherzato mentre superavamo di slancio la sagoma elegante del Danieli. “Pass free! Pass frei!!!”, sghignazzava Hans, felice come una Pasqua, lasciando ondeggiare la Marlboro nel buio. Un tizio biondo e selvaggio ci era saltato addosso quasi all’ingresso. Magro e con i capelli lunghi, per l’intera nottata non ero riuscito a capire se fosse italiano oppure no. Giuro. “Artisten!”, gridava rivolto ai miei amici. Tedesco-maccheronico, pareva. O almeno, suppongo che fosse così. Per qualche oscuro motivo a me invece si rivolgeva esclusivamente in francese, ma senza accento francese. Saltava di qua e di là con una lattina di Becks in pugno, facendo letteralmente impazzire il tizio cinese dietro il bancone. “Deutsches Bier” strillava col sorriso pazzoide, zompando dietro il bancone, e il dubbio che fosse italiano mi restò addosso per tutto il tempo.  Poteva essere chiunque. Forse era semplicemente nessuno. Uno di quelli che esistono solo di notte, in posti segreti e mask-free come la locanda degli spiriti. E che di giorno smettono del tutto di esistere. Neanche quella volta loro due misero su la maschera. Ma lei e Hans stavano benissimo anche senza, altro che. E Gret quella sera aveva il profilo di una regina. Una regina felice. Mentre Hans pareva un re.


E poi il ponte dell’Accademia, dove ci eravamo conosciuti.


Io ero diretto al Guggenheim, e loro stavano giusto in mezzo alla passerella. Li osservavo da lontano mentre scattavano selfie con le facce sceme, scambiandoli per semplici turisti. Mi aveva avvicinato lui. Io ero convinto di tirare dritto, bloccato dalla richiesta di una foto. L’accento mi ricordava un po’ Alex Schwazer quando era andato a lagnarsi in tv, o Isolde Kostner allorché – chiusa la carriera – era finita al Grande Fratello Vip. Aveva la cicca in bocca e gli occhiali da sole. “Deutscher architekt”, si era schernito mentre lei stava già in posa, con tanto di gondola in transito sotto il Ponte dell’Accademia.


“Hans vuole tornare a Berlino, ha deciso!” strepita Gret dallo smartphone. “Eeeehhh queste mogli!” Passo la mattinata e ogni occasione è buona per attaccarmi al telefono. La collega mascherata ogni tanto passa e sorride. Comprensiva. “Eeeehhh”, faccio come una pecora. La borsa di studio era agli sgoccioli, e lui voleva anticipare il rientro. Hans andrà via, e si porterà via pure Gret. “Perché quest’estate non ci porti a Rimini con te?” Gret me lo chiedeva sempre. “Ma avete il mare pure qua”, rispondevo. “Sì, ma è un mare diverso”. Bello sì, ma diverso. E io me lo sognavo sempre. Il sottoscritto alla guida, un mattino di inizio estate, con i finestrini aperti e il vento che scompiglia i capelli biondi di Hans, piazzato vicino a me. E Gret, seduta dietro, che insiste perché metta di nuovo su quella canzone di Coez che le piace così tanto. “Si va al mare!” urla, mentre il vento si fionda dentro il finestrino e le fa volare i capelli. E via, che la musica non c’è. Oppure diretti al Lido, a vedere la mostra del cine. Ma non coi vaporetti da turisti, noi tre. Col taxi boat, piuttosto, come le star. Come Clooney e Amal quando sbarcano felici-sorridenti-e-irraggiungibili, sventolando la manina verso folle adoranti. Non hanno mai preteso di cambiare il mondo, quei due. E avevano riso un pochino di me, quel giorno sul ponte dell’Accademia. Vestito in tuta, e senza alcuna chance di entrare alla Fenice. Quindi avevo ripiegato sul Guggenheim. Quando si dice la buona sorte.


“Falsario e imbucato”. Svaniscono come un lungo sogno invernale.
I saw two shooting stars last night, I wished on them but they were only satellites… Chi governa il mondo? Chi cazzo è che lo governa? Seduto sulla banchina di Punta Dogana, guardo a distanza la città vestita come un’assassina. La Giudecca al solito resta in pace alle mie spalle. Quieta e senza pensieri. Come ogni isola che si rispetti, se ne sta di là, le luci si spengono e buonanotte al secchio. Il cielo nero, e il rumore dell’acqua. I bagliori notturni dall’altra parte del Grand Canal. Indago il blu torbido del canale e traccio i nomi sull’acqua. La luce obliqua del lampione sferza invano la superficie, mentre scrivo. Gret, e poi Hans. E sopra ci scrivo Barby. Le forze invisibili che straziano il cuore stanno lì, in fondo al mare. Sotto sotto. Acquattate sul fondale, come feroci assassine. Nonostante mi sforzi di tracciare forte, le dita scivolano sulla superficie liquida e fredda del Rio. Come assassine. E restano invisibili, i nomi.