INTIFADA FINO ALLA VITTORIA

 

                                          

 

C’era scritto così, su un muro alla periferia di Urbino. Tracciato in inchiostro nero, sulla via che portava ai collegi. Seconda metà degli anni ’90. La scritta, come uno strillo nel deserto, ha resistito a ogni tipo di intemperia e su quel muro c’è rimasta impressa per anni. Come un invito. O una condanna. Impossibile non notarla.


Due ragazzi all’epoca poco più che ventenni. Magri e sprovveduti. Felici e un po’ confusi. Uno bianco e l’altro nero. Una notte decisero di farlo. Perché fosse chiaro a tutti da che parte stava la ragione. Chi erano i cattivi, ovvero quelli coi soldi, le armi e la prepotenza degli invasori. E chi i buoni, i poveri, gli invasi, i derubati. Quelli che alle prepotenze e alle bombe di chi li aveva scacciati dalla propria terra rispondevano con le pietre. Minorenni e bambini, in gran parte, che andavano a lanciare sassi contro i carrarmati dell’auto proclamato Stato criminale di Israele.


Intifada, Dio mio come mi piaceva quella parola.


Ho conosciuto molto bene quei due ragazzi. Uno, il nero, non lo vedo più da una vita, senza che ci sia un perché. L’altro, invece, continuo a incontrarlo tutte le mattine, quando vado in bagno a lavarmi i denti. Passano gli anni ma lui sembra sempre uguale.


Il ragazzo bianco e il ragazzo nero si erano conosciuti circa un anno prima, una sera di inizio ottobre. Era praticamente notte quando qualcuno aveva suonato al citofono di quell’appartamento per studenti. Il bianco, rincasato da poco, aveva aperto con una certa riluttanza, e due minuti dopo sulle scale si era ritrovato davanti il nuovo inquilino. Gli avevano detto che aveva un anno più di lui, ma quando il bianco lo vide per la prima volta, intento a trascinare la valigia sulle scale, pensò si trattasse di un errore. Il ragazzo nero dimostrava sì e no 16 anni. Non poteva essere quello, il nuovo inquilino. Ma era proprio lui.


Il ragazzo nero arrivava da una terra lontana, là dove l’occidente sfuma in altopiani aridi e immense distese deserte. Con un italiano imparato in fretta e furia durante la stagione estiva in un albergo pesarese, il nero  aveva deciso di iscriversi a economia. Ma l’altro lo capì subito che non aveva nessuna speranza. Il bianco, ancora fresco di maturità scientifica, vedeva come un ostacolo insormontabile per il nuovo arrivato quell’esame di matematica che più o meno corrispondeva a un quinto liceo, mentre il ragazzino color nocciola a stento andava oltre le nozioni del primo. Ma il ragazzo nero continuava a provarci, e nonostante i continui fallimenti sembrava non scoraggiarsi mai.


All’inizio le cose parevano molto sbilanciate, tra i due. Il bianco era più alto, più forte. Gli amici erano i suoi. Tutti. Dopo 12 mesi già trascorsi lassù, su questo non potevano esserci dubbi. La stessa città pareva la sua. E aveva pure il migliore amico, lui. E la migliore amica. E perfino qualche ragazza, di tanto in tanto. E poi una famiglia solida, due genitori veri alle spalle che gli permettevano di studiare in tranquillità, senza essere costretto a lavorare. E con gli esami andava a gonfie vele. Andava tutto bene, al bianco. Il nero era solo una coda. Una comparsa. Non aveva praticamente niente, lui. Una specie di intruso che il bianco si portava appresso. Con i suoi libri di matematica, gli occhialetti e le sigarette. Niente di più. Non aveva nient’altro.


Ma il nero aveva una forza nascosta. Una specie di potere occulto. Era capace di acchiappare qualsiasi oggetto, innanzitutto. Di qualsiasi dimensione. Da qualsiasi distanza glielo si lanciasse, con o senza preavviso, lui l’acchiappava. Anche se era girato. Si voltava di scatto e lo acchiappava. Sembrava quasi inumano. Una specie di istinto animalesco che gli arrivava dritto dal suo passato. Dalle origini. Da qualche misterioso sortilegio propiziato da stregoni del deserto quando era ancora in fasce. E poi parlava l’arcana e incomprensibile lingua degli antichi, il nero.


Era molto più forte di quanto trasparisse dall’aspetto gracile. Ai tempi nelle nottate studentesche l’alcol scorreva allegramente a fiumi, e una volta il bianco ci rimase un po’ sotto, crollando al suolo nell’affollatissima pista del Portico. Il nero, facendosi largo tra la selva di gambe e braccia impazzite, lo tirò su di peso, trascinandolo fuori dal locale e portandolo in salvo. Lui, con quelle braccine nocciola magre e apparentemente delicate. Lo aveva letteralmente spostato fuori, quasi a peso morto. “Jìm fòra!”, aveva gridato appena furono allo scoperto, nella sua divertente declinazione del dialetto urbinat/pesarese. E chissà come sarebbe stato se invece l’italiano lo avesse imparato a Milano, o in Veneto, oppure al sud, si era chiesto con una punta di orrore il ragazzo bianco. Scacciò subito via quel pensiero funesto. Fòra da Urbìn...  Più che un modo di dire, tra gli studenti di allora quella era una vera dichiarazione di intenti. E di appartenenza. Una sorta di mantra. Fòra da Urbìn, da Pèsar e da la Romagna, non si studia, non si scopa e non si magna. Come a dire che non c’era proprio niente, fuori da quelle terre. Zero assoluto. Un dogma fatto proprio da tutti, a prescindere dal variegato arcobaleno dei rispettivi paesi di provenienza. Tutto il resto dell’universo, da Milano al profondo sud, era relegato nei meandri di un passato lontano, che si voleva solo disperdere o dimenticare, oppure rinviato a un futuro remoto, oscuro e dai contorni ancora non chiari. Come un sinistro presagio da accantonare e spingere via il più in fretta possibile. Se ne potevano anche andare affanculo, il futuro e il mondo di fuori. Perché lì non erano certo i benvenuti. “Jìm fòra!” aveva urlato lui con il solo accento gradito a tutti gli altri. Fòra! Poi si era messo a fumare, con la sua aria indecifrabile, appoggiato alla ringhiera della piazza. Mentre tutti gli altri ragazzi sciamavano attorno.


Chiuse le serate, restavano svegli scavando famelici nel cuore più buio delle ibride notti ducali. E parlavano tanto, il bianco e il nero. Di politica, di Medio Oriente. Degli inganni della storia. E di ragazze, soprattutto. Di quella tipa che a weekend alternati aveva preso a scendere giù da Rimini e che il bianco si era incaponito a frequentare. Si aggiravano tra i vicoli del centro storico. Sotto i portici del corso. O al Pincio, sovrastati dalla mole enorme dei Torricini. Talvolta perfino su in Fortezza. Erano gli ultimi a restare in piedi, a Urbino. Anzi erano proprio loro, si diceva a quei tempi, a chiudere le porte della cittadella ducale, quando si faceva una certa. Il ragazzo nero fumava a tonnellate, e nei riflessi blu della notte urbinate raccontava al bianco la sua infanzia. Nelle luci soffuse della piazza deserta. Oppure nel silenzio del balcone di casa. La povertà. Le cose semplici. Le tavolate immense a cielo aperto. La vita libera, un po’ come selvaggi. La paura dei grandi. Il rumore del vento del deserto. Il canto del muezzin che si alzava come un’onda serale dal minareto. I fratelli e le sorelle, che a contarli tutti non ci stavano neanche in due mani. E poi quella terra lontanissima. Le ingiustizie subite da un popolo martoriato e inerme. Fu proprio in una di quelle notti che il bianco strappò al nero una promessa. “Quando tornerai laggiù, portami con te”. Sarebbero andati insieme a tirare le pietre agli ebrei invasori, quei due. Per far capire a tutti che i soldi e le bombe non sempre bastavano ad averla vinta.


Un certo giorno il bianco e il nero iniziarono a collezionare cucchiai di plastica sottratti alla mensa. E anche quella storia un po’ bizzarra fece presto il giro degli studenti. Molti neanche ci credevano, che quei due in casa ormai custodivano un vero e proprio arsenale. Una montagna di inutili cucchiai che dopo un po’ di mesi arrivarono a occupare quasi mezza saletta. Chissà che fine ha fatto, quella collezione inutile.


E il tempo infinito trascorso là fuori. Che tanto a lezione il giorno dopo ci si andava lo stesso. Il bianco non ne perdeva una, e con gli esami andava forte. Dormiva poco, ma ci andava. E il nero, quantomeno, continuava a provarci. Il bianco e il suo gruppo inossidabile. Il bianco e il suo migliore amico. Il bianco e le sue amiche. Il bianco e la riminese, che lui di tanto in tanto portava in albergo o alle Cesane. Ma era solo con la sua piccola e invisibile coda che a una certa ora si decideva a tirare giù il sipario. Sulle strade scoscese e silenziose della città. I padroni della notte. Le sfide a calcio, furiose, con qualche lattina sconclusionata raccattata da qualche parte. “Sempre voi”, scuoteva la testa la signora della mensa, vicina di casa, mentre il giorno successivo serviva loro il pasto. Ma sorrideva, mentre lo diceva. Abitava a due passi, e rideva di quei due ragazzi allegri, un po’ rumorosi ma col fuoco dentro. Poi c’era stata la neve, una volta. Era febbraio, e ne era venuta giù una valanga. La giornata era volata via tra il centro e i collegi, finché non si erano ritirati tutti. Stanchi, sporchi e felici. Ma il meglio era venuto dopo, col bianco e il nero che si erano trascinati come folli in discesa. Stridendo i posteriori sul ghiaccio avevano letteralmente sfondato il portone di casa, rientrando a 100 all’ora. Avevano svegliato mezzo quartiere, quella volta lì. Un casino che il giorno dopo sarebbe costato carissimo. Ma quando quella notte il bianco si mise a letto, pensò che non aveva mai riso, né si era mai divertito tanto in vita sua.


Al rientro dalle vacanze pasquali, superato il centro e presa la via di casa, in un tiepido giorno di primavera il bianco se lo era visto sbucare davanti. Aveva lasciato Urbino solo un paio di settimane prima, ancora freddina. Dopo una manciata di giorni l’aveva ritrovata così, nella sua veste migliore. Trascinando la valigia verso casa, i colori della primavera gli erano esplosi addosso. Non voleva fare altro che cambiarsi, mollare le borse e prepararsi alle promesse della sera. Agli amici e a tutto il resto. Poi da lontano aveva visto lui, una piccola macchia nocciola che avanzava discreta nei colori sgargianti della nuova stagione. Era bastato quello per cambiare immediatamente i piani. Il bianco, che di solito era così organizzato. Aveva scaricato la borsa in garage, senza nemmeno risalire in casa. E gli era andato subito appresso, al ragazzo nero. Sicuro che sarebbe stato felice, dovunque l’avesse portato.


“Tutto si ne va, come la vanità...” Il nero aveva una filosofia di vita molto semplice. Pretenziosa, ma semplice. E chiudeva la sentenza con una profonda aspirata. Ahhh. Sempre così. Fumava a tonnellate, il ragazzo nero. E in quegli anni insegnò al bianco tutto quello che di importante c’era da sapere nella vita: come si preparava e fumava una canna, innanzitutto. E soprattutto come la verità delle cose spesso fosse molto semplice da osservare, nonostante sembrasse ben nascosta dall’ovvietà delle apparenze. La realtà per come appare, e la realtà per com’è. Spesso ci stava quasi un abisso, nel mezzo. E poi il nero insegnò al bianco la giustizia, gli spiegò che tra gli israeliti invasori e i palestinesi derubati non poteva starci nessun dubbio rispetto a chi fossero le vittime e chi i carnefici. Tanto che quei criminali di guerra si sarebbero ben meritati le pietre, prima o poi.


Mentre il primo autunno cominciava a mangiarsi la coda dell’estate, il bianco decise perfino di invitarlo a casa sua, giù al sud. Andò a prenderlo alla stazione. Non era certo un tipo incline a far ridere di proposito le persone, il bianco. Ma quel giorno al binario fece sbellicare decine di passeggeri. Il nero si presentò con una amica comune diretta più a sud, in sosta per qualche ora a Pescara. Lei era bella, bellissima. Bionda, con tanto di minigonna e cosce ben in mostra. Non brillava certo per intelligenza, ma era una di quelle tipe che non passava mai inosservata. Quando il ragazzo bianco avvistò i due sul binario, in mezzo alla folla, corse loro incontro. Non aveva preparato niente, ma gli venne tutto naturale. Spalancò le braccia, diretto verso l’amica sorridente e pronta a ricambiare. Appena giunto in prossimità, con una beffa degna di ‘amici miei’, virò improvvisamente verso il ragazzino nero, che stava alle sue spalle. Mite, magro, anonimo. Dietro quella bellezza quasi scompariva. Lo abbracciò e lo baciò affettuosamente, e nessuno saprà mai se le risate spontanee e convinte delle decine di persone che avevano assistito alla scena fossero dovute all’espressione costernata della bionda o piuttosto alle insolite effusioni tra i due. A tutt’oggi, il bianco la considera una delle scenette più esilaranti e ben riuscite della sua vita. Era il 3 ottobre del 1997. Per chi fosse curioso ed è in grado di riavvolgere il nastro, li trova lì al binario in tarda mattinata, poco prima di mezzogiorno. Il nero restò a Pescara due giorni. Si ritrovarono a Urbino un paio di settimane dopo, per l’inizio del nuovo anno accademico. Fu allora che il bianco cominciò a sospettare che il nero non fosse semplicemente una coda. Evidentemente, era qualcosa di più.


Aveva sempre avuto la fissa per le stanze singole, e mai nessuno, amici del cuore o belle ragazze che fossero, era mai riuscito a far vacillare quella certezza granitica. Gli piaceva stare in compagnia, ma una volta giunta l’ora della nanna ognuno dritto in camera sua. All’alba del nuovo anno accademico, il nero fu il primo, unico e ultimo a mandare in frantumi quella fissa. Una volta che il comune amico che condivideva con lui la doppia si laureò, in un amen il bianco mollò clamorosamente la sua preziosissima singola e andò a piazzarsi proprio lì, col letto a tre metri da quello del ragazzetto color nocciola.


Fu allora che il nero insegnò al bianco tutto quello che c’era di importante da sapere. E fu allora che il bianco decise una volta per tutte che quella non era semplicemente una coda, o la sua ombra. Fu quello, forse, l’inizio della fine. Perché il nero, coi libri non riusciva proprio a sfondare. I soldi scarseggiavano sempre più, e altre storie bussavano alla porta. Per il bianco e per il nero. Il futuro batteva e reclamava insistentemente la sua parte, e nessuno era in grado di fermare l’alta marea del destino. Così, lentamente, come un fiume che ritrova il mare, si giunse inevitabilmente alla fine. Il bianco, a tirare le pietre agli ebrei giù in Palestina non sarebbe mai andato, e quelle promesse di una notte d’inverno restarono sepolte sotto quintali di fumo e illusioni.


Mi chiedo ancora oggi dove sia finito, quando ogni mattina mi alzo e indago lo specchio. Anche quella scritta, sulla via dei collegi, ormai non c’è più. Cancellata chissà da chi, e chissà quando, da una mano che certo non aveva idea di chi fossero i due ventenni che l’avevano tracciata. Tutto si ne va... Mi ha insegnato quasi tutto quello che so, quel ragazzo color nocciola. Tutto. Forse non è mai stato il mio migliore amico. Prima e dopo di lui ce ne sono stati altri che ho considerato così. Magari neanche il secondo, né il terzo, e nemmeno il quarto. Quelli del gruppo di Urbino, di tanto in tanto continuo ancora a vederli. Lui invece è stato un lampo consumato in fretta. Di certo meno vistoso della prima ragazza, del grande amore o dell’ultimo. Tanti sono scomparsi, molti altri resistono. Quasi sempre più importanti di lui. Ma lui è stato quello a cui ho voluto più bene di tutti. E resterà solo un sogno, quello di andare ai confini del mondo a lanciare le pietre contro gli invasori. Il sogno di dividere il bene dal male. Di tracciare una linea dritta e scacciare via gli usurpatori. Il sogno di due ragazzetti magri, poco più che ventenni, uno bianco e uno nero, che una notte di un quarto di secolo fa l’andarono a scrivere a chiare lettere su quel muro di periferia.